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La consolazione del dolore.
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La consolazione del dolore.
Vorrei iniziare questo scritto con alcune frasi tratte dal libro di Concita De Gregorio “Malamore” Esercizi di resistenza al dolore, Mondadori.
"Le donne hanno più confidenza col dolore. Del corpo, dell’anima. E’ un compagno di vita, è un nemico tanto familiare da esser quasi amico, è una cosa che c’è e non c’è molto da discutere. Ci si vive, è normale. Strillare disperde le energie, lamentarsi non serve. Trasformarlo, invece: ecco cosa serve. Trasformare il dolore in forza. Ignorarlo, domarlo, metterlo da qualche parte perché lasci fiorire qualcosa".
La “convivenza” con il dolore è un’esperienza frequente per molte persone, uomini e donne. Con una differenza a volte, che le donne, come dice C. De Gregorio, hanno più confidenza col dolore mentre gli uomini rimangono spaventati da esso e ne prendono una distanza.
Le principali fonti di dolore psicologico quali la vergogna, colpa, rabbia, solitudine, disperazione, hanno origine nei bisogni psicologici frustrati e negati.
Di fronte ad una esperienza dolorosa, l’individuo sperimenta un bisogno di accudimento, di rassicurazione e di consolazione.
Quando non è possibile soddisfare questi bisogni vitali, perché le persone dalle quali si aspetta una risposta di conforto, di condivisione, di protezione non sono disponibili come vorrebbe o non è in grado di affidarsi a queste persone, l’individuo sperimenta un restringimento del pensiero, con una riduzione delle opzioni normalmente disponibili e adotta una “soluzione” al dolore, che nel tempo può bloccare e congelare il bisogno di protezione, di accudimento e di consolazione.
Queste persone non sono più in grado di chiedere alle figure di riferimento quello di cui hanno bisogno, non sono più in grado di dare loro stesse quelle risposte di protezione, accudimento, consolazione, a chi ha bisogno.
Queste persone si lamentano perché non c’è nessuno che possa consolarle, ma poi si circondano di persone incapaci di consolarle.
Queste persone non possono essere consolate, non possono accettare che quel dolore che loro portano possa essere consolabile e quindi superabile.
Queste persone si sentiranno inadeguate a soddisfare i bisogni di consolazione dell’altro, si sentiranno spaventate perché penseranno di fallire per non avere sufficienti strumenti.
Con il passare del tempo, queste persone non solo sono spaventate dall’affidare all’altro i propri bisogni, ma non riconoscono più questi bisogni dentro di loro. La negazione di questi bisogni apparentemente non fa soffrire e non fa ricordare tutte le volte che questi bisogni non sono stati accolti.
Queste persone raccontano che se avessero espresso il desiderio di essere consolate sarebbero state derise e svalutate. La richiesta di supporto può essere vista come una debolezza, una fragilità che espone ad una ulteriore frustrazione e svalutazione.
Queste persone hanno trasformato il loro dolore in qualcosa d’altro, in rabbia, in distacco, in negazione di sé, in resistenza.
Alcune persone, come le donne descritte dalla De Gregorio, si sintonizzano sull’opportunità di crescita del dolore. Apparentemente sembrano più forti, ma ciò che rimane bloccato e congelato sono sempre quei bisogni di protezione, accudimento e consolazione. In nessuna relazione, neanche in quella psicoterapeutica, possono sperimentare e vivere quell’aspetto di consolazione.
Quando queste persone iniziano un percorso psicoterapeutico portano nella relazione con lo psicologo, tutte le loro difficoltà ad affidarsi.
Lo psicologo ha il compito di accogliere il dolore e consolare le esperienze dolorose che queste persone portano dentro di loro.
Nella relazione psicoterapeutica, lo psicologo riconosce il dolore della persona. Il dolore può essere integrato dentro di sé e non allontanato. L’esperienza di stare con “qualcuno” nel dolore permette di trasformarlo. Il dolore c’è sempre, ma è un’altra cosa. Il dolore nessuno lo toglie ma si potrà trasformare perché ha trovato posto in una relazione. Queste persone non sono più costrette a reagire al dolore ma potranno sperimentare una relazione in grado di accoglierlo e di condividerlo.
Queste persone potranno passare dal resistere al dolore alla crescita. Si tratta di due aspetti diversi, perché prima quella che veniva considerata forza era una resistenza, come per le donne descritte da C. De Gregorio.
La forza non sta nel resistere al dolore ma nella capacità di accogliere questa sofferenza e di integrarla dentro di sé. Il dolore diventa più leggero perché non deve essere più combattuto.
A volte le persone si sentono più forti quando hanno un nemico da combattere ma perdono la libertà di poter investire questa forza in altro, nelle proprie risorse e nei propri limiti.
L’esperienza di dolore diventa esperienza di crescita quando queste persone permettono di farsi consolare e di consolare l’altro.
Come un genitore che fa crescere il figlio perché gli fa sentire che può essere consolato, che non deve avere paura di quel dolore, che ci può rimanere in contatto prima di superarlo. In questo cresce un bambino, quando il genitore gli insegna a non girare la testa dall’altra parte perché il dolore non esiste, perché sul momento il bambino sembra apparentemente forte ma poi senza volerlo il genitore lo ha ingannato.
Dott.ssa Simona Di Giovanni
simonadigi@libero.it
"Le donne hanno più confidenza col dolore. Del corpo, dell’anima. E’ un compagno di vita, è un nemico tanto familiare da esser quasi amico, è una cosa che c’è e non c’è molto da discutere. Ci si vive, è normale. Strillare disperde le energie, lamentarsi non serve. Trasformarlo, invece: ecco cosa serve. Trasformare il dolore in forza. Ignorarlo, domarlo, metterlo da qualche parte perché lasci fiorire qualcosa".
La “convivenza” con il dolore è un’esperienza frequente per molte persone, uomini e donne. Con una differenza a volte, che le donne, come dice C. De Gregorio, hanno più confidenza col dolore mentre gli uomini rimangono spaventati da esso e ne prendono una distanza.
Le principali fonti di dolore psicologico quali la vergogna, colpa, rabbia, solitudine, disperazione, hanno origine nei bisogni psicologici frustrati e negati.
Di fronte ad una esperienza dolorosa, l’individuo sperimenta un bisogno di accudimento, di rassicurazione e di consolazione.
Quando non è possibile soddisfare questi bisogni vitali, perché le persone dalle quali si aspetta una risposta di conforto, di condivisione, di protezione non sono disponibili come vorrebbe o non è in grado di affidarsi a queste persone, l’individuo sperimenta un restringimento del pensiero, con una riduzione delle opzioni normalmente disponibili e adotta una “soluzione” al dolore, che nel tempo può bloccare e congelare il bisogno di protezione, di accudimento e di consolazione.
Queste persone non sono più in grado di chiedere alle figure di riferimento quello di cui hanno bisogno, non sono più in grado di dare loro stesse quelle risposte di protezione, accudimento, consolazione, a chi ha bisogno.
Queste persone si lamentano perché non c’è nessuno che possa consolarle, ma poi si circondano di persone incapaci di consolarle.
Queste persone non possono essere consolate, non possono accettare che quel dolore che loro portano possa essere consolabile e quindi superabile.
Queste persone si sentiranno inadeguate a soddisfare i bisogni di consolazione dell’altro, si sentiranno spaventate perché penseranno di fallire per non avere sufficienti strumenti.
Con il passare del tempo, queste persone non solo sono spaventate dall’affidare all’altro i propri bisogni, ma non riconoscono più questi bisogni dentro di loro. La negazione di questi bisogni apparentemente non fa soffrire e non fa ricordare tutte le volte che questi bisogni non sono stati accolti.
Queste persone raccontano che se avessero espresso il desiderio di essere consolate sarebbero state derise e svalutate. La richiesta di supporto può essere vista come una debolezza, una fragilità che espone ad una ulteriore frustrazione e svalutazione.
Queste persone hanno trasformato il loro dolore in qualcosa d’altro, in rabbia, in distacco, in negazione di sé, in resistenza.
Alcune persone, come le donne descritte dalla De Gregorio, si sintonizzano sull’opportunità di crescita del dolore. Apparentemente sembrano più forti, ma ciò che rimane bloccato e congelato sono sempre quei bisogni di protezione, accudimento e consolazione. In nessuna relazione, neanche in quella psicoterapeutica, possono sperimentare e vivere quell’aspetto di consolazione.
Quando queste persone iniziano un percorso psicoterapeutico portano nella relazione con lo psicologo, tutte le loro difficoltà ad affidarsi.
Lo psicologo ha il compito di accogliere il dolore e consolare le esperienze dolorose che queste persone portano dentro di loro.
Nella relazione psicoterapeutica, lo psicologo riconosce il dolore della persona. Il dolore può essere integrato dentro di sé e non allontanato. L’esperienza di stare con “qualcuno” nel dolore permette di trasformarlo. Il dolore c’è sempre, ma è un’altra cosa. Il dolore nessuno lo toglie ma si potrà trasformare perché ha trovato posto in una relazione. Queste persone non sono più costrette a reagire al dolore ma potranno sperimentare una relazione in grado di accoglierlo e di condividerlo.
Queste persone potranno passare dal resistere al dolore alla crescita. Si tratta di due aspetti diversi, perché prima quella che veniva considerata forza era una resistenza, come per le donne descritte da C. De Gregorio.
La forza non sta nel resistere al dolore ma nella capacità di accogliere questa sofferenza e di integrarla dentro di sé. Il dolore diventa più leggero perché non deve essere più combattuto.
A volte le persone si sentono più forti quando hanno un nemico da combattere ma perdono la libertà di poter investire questa forza in altro, nelle proprie risorse e nei propri limiti.
L’esperienza di dolore diventa esperienza di crescita quando queste persone permettono di farsi consolare e di consolare l’altro.
Come un genitore che fa crescere il figlio perché gli fa sentire che può essere consolato, che non deve avere paura di quel dolore, che ci può rimanere in contatto prima di superarlo. In questo cresce un bambino, quando il genitore gli insegna a non girare la testa dall’altra parte perché il dolore non esiste, perché sul momento il bambino sembra apparentemente forte ma poi senza volerlo il genitore lo ha ingannato.
Dott.ssa Simona Di Giovanni
simonadigi@libero.it
Dott.ssa Di Giovanni- Numero di messaggi : 7
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