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Licia - la storia di una mancata identità di genere

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Licia - la storia di una mancata identità di genere Empty Licia - la storia di una mancata identità di genere

Messaggio Da Dott. A. Paliotti Gio 23 Ott 2008, 18:50

Licia

Mi era stato inviato da un medico di base.
Mi aveva svegliato alle sette del mattino con l’urgenza di parlarmi di uno strano ragazzo. Un ragazzo che voleva diventare una ragazza.

“Mi chiamo Pasquale, ma chiamami Licia” esordì entrando nel mio studio ed il volto gli si illuminò in un sorriso. Aveva 17 anni e superava il metro e novanta. Allegro ed esuberante, indossava un pantalone e un maglione attillati, di colore pastello, ed era magro da far spavento. Di lineamenti regolari e con gli occhi azzurri, aveva i lunghi capelli biondi divisi in due bande ricce che gli scendevano laterali tese a mascherare orecchie prominenti e precoci stempiature maschili. Avrebbe potuto essere un bel ragazzo, ma un velo di fondotinta, una venatura di ombretto e una collanina di finte pietruzze colorate ne definivano la natura ambigua. Pasquale non passava inosservato.

Fu subito esplicito. Sin da piccolo viveva con il fardello di un corpo maschile, che non aveva mai accettato, e visto l’approssimarsi del suo diciottesimo compleanno, si era recato dal medico per richiedere la prescrizione di ormoni femminili.
Suo progetto futuro: l’intervento per la ridefinizione del sesso. Non sopportava più di vedersi con sembianze da maschio.

Pasquale parlava di sé usando pronomi ed aggettivi femminili. Io mi adeguavo, ma ogni tanto mi sfuggiva di chiamarlo Pasquale o di rivolgermi a lui come ad un ragazzo. Rapida mi correggevo e mi scusavo, ma lui non si offendeva, accettava con un sorriso le mie gaffe, ma dolcemente mi correggeva: Licia, Licia! E la sua risata riempiva ogni angolo del mio studio.

Le sue intenzioni erano chiare. Ma non era possibile accontentarlo subito.

Gli spiegai che, in questi casi, occorre l’intervento di una equipe di specialisti, che, con opportuni accertamenti, psicologici e fisiologici, appuri che si tratta effettivamente di un individuo transessuale.
Una diagnosi non semplice. Di frequente ci si trova di fronte ad omosessuali con disturbi della personalità che, in crisi d’identità, s’illudono di risolvere i problemi psichici con una trasformazione sessuale.

Pasquale mi ascoltò. Seppur giovanissimo era sicuro di ciò che voleva e si disse dispostissimo a qualsiasi indagine. C’era solo il problema dei costi.
“Non è un problema” lo rassicurai e fu così che iniziammo.

Cauta, come in ogni inizio, mi affacciai nel suo mondo. Ed era un mondo di miserie, di dolori, ma anche di allegria e determinazione. Frequentava l’ultimo anno di un Istituto Alberghiero ed aspirava, in un prossimo futuro, a lavorare in un ristorante o in un albergo. Magari all’estero.

Gli era giunta voce che in Inghilterra l’intervento di riassegnazione chirurgica del sesso - RCS - era gratuito, a carico completo dello stato, e riteneva fosse l’unica strada possibile per potervi accedere.
La famiglia non navigava nell’oro. Di bassa estrazione sociale, il padre senza un lavoro stabile e la madre casalinga, non avrebbero potuto sostenere le spese necessarie. D’altra parte in casa era guerra aperta. Non riuscivano in alcun modo ad accettare il figlio. Il disonore della famiglia. Il padre da mesi non gli rivolgeva la parola, e con la madre era uno scontro continuo. Quando la mattina gli dava i soldi per l’autobus per andare a scuola, lo squadrava da capo a piedi e lo riempiva di improperi, e poi gli intimava di lavarsi la faccia o di levarsi la tal maglietta. E i suoi sermoni terminavano sempre allo stesso modo:
“Spero solo che vai a finire sotto a un tram!”

Di tre sorelle due gli erano ostili, mentre la piccola lo guardava con curiosità e gli dimostrava affetto.
Pasquale reagiva alle incomprensioni familiari frequentando le sue compagne di scuola. Erano le sue amiche. Pronte a difenderlo se per strada lo deridevano o l’offendevano, lo comprendevano e gli volevano bene. Gli davano saggi consigli e, dato che peli e barba erano il suo nemico numero uno, gli pagavano le sedute dall’estetista! Trascorreva intere giornate a casa dell’una o dell’altra. Si misuravano vestiti, provavano nuovi trucchi, parlavano di ragazzi e insieme si divertivano e ridevano a crepapelle.

Pasquale, come ogni brava ragazza, aspirava ad avere un fidanzato, un amore vero. Un ragazzo che non la facesse sentire più sola.
Era tenero, dolce, ma il suo aspetto di maschio sbagliato con la coesistenza di tratti maschili e l’esasperazione di atteggiamenti femminili avrebbe allontanato chiunque, chissà, forse, pensavo, magari un omosessuale…
Il suo desiderio d’amore rimase per mesi frustrato, a volte disperato trascorreva la seduta in singhiozzi, in altre pieno di speranza rideva gioioso come una bambina: si era innamorato di qualcuno che al massimo si divertiva, lo prendeva in giro, lo illudeva, e poi preferiva le sue amiche.

“E’ perché loro hanno il triangolo!” mi ripeteva deluso e mi pressava perché voleva il via alla terapia ormonale.

E venne il gran giorno. Il medico gli prescrisse le prime compresse di estrogeni, e Pasquale … Licia era l’uomo, la donna, più felice del mondo! Era convinto che la sua vita sarebbe cambiata e difatti cambiò. In poche settimane i capezzoli s’ingrossarono e divennero turgidi e lui li esibiva con magliette sempre più aderenti, ma il vero cambiamento non fu tanto fisico, quanto psichico.

Oramai non si nascondeva più. Non che prima lo facesse, ma evitava magliette, trucco e comportamenti troppo femminili. Ma nel momento in cui si convinse che la trasformazione era finalmente iniziata, con entusiasmo incontenibile, diede il via libera all’immaginazione. E i problemi in famiglia aumentarono. I capelli sempre più lunghi, gli occhi sempre più truccati, gli abiti sempre più femminili I genitori erano esasperati. Ma lui non ci badava. Accettava in silenzio ostilità e sermoni, felice di veder compiere il suo sogno: diventare donna.

E finalmente si fidanzò. Arrivando allo studio, un pomeriggio, lo vidi seduto sulle ginocchia di un tale. Un tizio piccolino che Licia sovrastava con tutta la sua persona. Felice me lo presentò. Erano fidanzati da tre giorni. Faceva il pizzaiolo ed era innamoratissimo.
Seduti di fronte a me erano una coppia insolita. Licia parlava, parlava. Parlava e rideva, lui, il pizzaiolo un sorriso vacuo, annuiva in visibile imbarazzo. La settimana successiva il fidanzato era già sparito.

“S’impasticca e non mi piace!” disse Licia entrando nel mio studio con gli occhi di lacrime. Al ragazzo piaceva frequentare le discoteche e riempirsi di pillole. Non aveva capito che Licia era una brava ragazza. E non solo. Aveva cercato di toccarle il sesso e lei non aveva accettato. Non permetteva a nessuno di toccare quella parte che sentiva non appartenerle, e di cui si vergognava.

“Se a loro interessa solo quello, vuol dire che sono omosessuali” e convinta riprendeva “e io voglio un uomo!”
E così trascorse un anno. Tra liti familiari, incomprensioni amorose e l’impossibilità di trovare lavoro. Per un breve periodo fu assunta come ragazza sul cubo in una discoteca, ma non ci fu altro.

In un caldo pomeriggio la vidi arrivare trionfante:

“Ho imparato a fare le pizze!” esclamò con gli occhi che le brillavano.
“Questa estate di sicuro troverò lavoro in una pizzeria al nord, magari a Rimini che dici? Lì non sono provinciali e cafoni come questi qui a Napoli.”
Le frustrazioni accumulate non si contavano. Ma non minavano il suo entusiasmo. Ed io ridevo con lei, condividevo la sua gioia, speravo che uno spiraglio si fosse finalmente aperto nel suo futuro.

Quell’anno, alla fine del ciclo scolastico, superò brillantemente gli esami, e si dedicò alla ricerca di un lavoro. Era disposta a fare qualsiasi tipo di lavoro, ma trovò solo porte sbarrate. E d’improvviso non la vidi più.

Me la ritrovai davanti dopo due mesi.
“E’ successa una cosa bruttissima” mi raccontò.
Aveva conosciuto altri transessuali e l’avevano invitata a Bologna. C’era lavoro in una discoteca. Non ci pensò due volte, infilò quattro stracci in una valigia presa in prestito, urlò ai suoi che non l’avrebbero rivista mai più, e partì. Ma appena arrivata, ben presto la delusione. Il lavoro in discoteca non esisteva. Si trattava di ben altro.
Inorridita, delusa e in lacrime decise di ritornare immediatamente, ma loro, le nuove amiche, erano in tre. Ed erano grandi, esperte, e la sommersero di chiacchiere. Le strillarono in faccia che nessuno le avrebbe mai offerto un vero lavoro e che poteva guadagnare molto bene uscendo con loro, per un paio di ore, solo due volte la settimana. E la convinsero.

Così schiva e pudica, ma terrorizzata da un futuro che vedeva sempre più nero, Licia acconsentì. E la sera si preparò. Indossò un abito bellissimo, avuto in prestito dalla nuova compagna, si truccò come volevano loro, poi si guardò allo specchio e scoppiò in un pianto dirotto.

“Non ce la faccio!” urlava, singhiozzando, disperata, mentre il trucco le si scioglieva sotto le lacrime e le imprecazioni delle amiche.
“Fai schifo!” le urlavano “sei ancora un uomo! Hai ancora la barba e ti permetti anche di lamentarti!”
Il giorno dopo salì su un treno, viaggiò senza biglietto e tornò a casa. I familiari, che avevano sospirato, sollevati, alla partenza del figlio per chissà quale lavoro, chissà dove, al vederla si sentirono sprofondare il terreno sotto i piedi, e l’aggredirono in malo modo. Ma questa volta Licia, forte della tragica esperienza, non chinò il capo come aveva fatto per anni, ma alzò la voce ed iniziò ad urlare più forte della madre e a rinfacciarle che per colpa sua si era trovata ad un passo dal marciapiede, e da chissà quali e quante terribili malattie! Tutti ammutolirono. Non c’era risposta possibile. E le porte di casa le si riaprirono d’incanto.

Ma i problemi erano tutti lì dove li aveva lasciati. Tra lavori negati e delusioni affettive. Scomparve di nuovo.

L’ho rivista ieri, dopo sei mesi.
L’aspetto curato, elegante, ben vestita e ben truccata. Indossava un paio di stivali con la zeppa che aumentava la sua statura di una decina di centimetri. In mano le chiavi di un auto comprata da poche settimane. Negli occhi uno sguardo metallico che non le avevo mai visto.
Licia si è rassegnata a quello che tutti ritengono essere il suo unico destino. Esce di sera e frequenta dei giardinetti.
“Non proprio per strada” mi rassicura “mi metto in una zona d’ombra, un poco nascosta, così ho la possibilità di scegliere!”
Le sue amiche hanno vinto. Si dice cambiata.
“Sono diventata cattiva! Non ho più pietà per nessuno e non mi interessa più nulla!”
Non ha più amici.
“Odio i trans. Sono uomini!”
E per sopravvivere era costretta a far uso proprio di quella parte del corpo di cui un tempo si vergognava, disprezzava, e non voleva che altri toccassero.
“Da me vengono gli uomini. Quelli rispettabili. Con i baffi, sposati e con i figli.” Dice con amarezza “quanta gente strana in giro! Vogliono vedere il mio pisello. Toccare. Io glielo dò, ma glielo faccio pagare molto caro.”
“In fondo” continua “è una parte che non mi appartiene. Non sono io. E’ solo uno strumento di lavoro”

La guardo. Mi manca la sua risata infantile di un tempo.
“Sai, ho un fidanzato. Pensa da un mese! Ogni sera mi viene a prendere al posto di lavoro, stiamo insieme qualche ora, poi mi riaccompagna a casa.” E d’improvviso si scioglie:
“Sto troppo male! Sono innamorata, mi piace molto” e scoppia a piangere

“Vorrei che lui fosse solo per me. Non è uno che va con i trans. Io sono la prima, ma esce con le ragazze, e le porta al cinema e in pizzeria, mentre con me giri, giri, solo giri in auto, lontano da tutti.
E poi mi mostra dei graffi sul viso. E’ stata picchiata da certe colleghe. Aveva invaso il territorio di qualcuno…
Mi chiede perché lui dice di amarla e poi acconsente che faccia questo lavoro.

Già, perché? E un nodo mi prende lo stomaco. Come le rispondo?

“Posso ritornare a trovarti?” mi chiede già sulla soglia, nello sguardo il barlume di un tempo e con un timido sorriso aggiunge:
“Sai, ora posso anche pagarti. Vedi…” e mi mostra, col sorriso di una bimba che ha rubato la marmellata, un portafogli gonfio di banconote.
“Non preoccuparti” le rispondo in fretta e con un brivido, “mi fa sempre piacere vederti.”

La porta chiusa in fretta ed è già via.
Ritorno alla scrivania, mi siedo, rifletto. Nell’aria ancora il suo profumo.
Licia non ha fatto alcun cenno all’intervento.
Spero non vi abbia rinunciato, per sempre.

Dott. Assunta Paliotti

Sullo stesso argomento:
Il Transessuale. Disfunzione dell'identità di genere
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Licia - la storia di una mancata identità di genere Empty Re: Licia - la storia di una mancata identità di genere

Messaggio Da patrizia Mer 25 Nov 2009, 22:53

cara Tina,
meglio tardi che mai!
ho ritrovato anche la password e per incanto trovo come rispondere!
Appassionanti le tue storie e le tue riflessioni...
ti faccio i complimenti dal cuore per questa cosa bellissima tutta tua!
solo tu potevi avere un'idea così splendente!
brava Tina, unica tina.
Patrizia

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