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La Torta al Cioccolato
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La Torta al Cioccolato
La Torta al Cioccolato
di Tina Paliotti
Non ci vuole molto, sono i soliti ingredienti: farina, zucchero, uova, latte, lievito, e quei cinquanta grammi di cacao che rendono magica la mia ricetta. Sì, è una ricetta speciale e vale molto più di un comune antidepressivo, o di un’ora di rilassamento. Ma non tutti lo capiscono.
Già il suo profumo è una magia che diffonde nell’aria una sensazione di cose buone di casa, e accoglie come un benvenuto l’ospite occasionale che, al piacere di gustarla, spesso associa il bonario rimprovero per la mia dichiarata passione per il cioccolato. E’ un gioco che mi diverte. Recitare questa parte un po’ da bambina che trascorre i pomeriggi ansimando a far torte.
Ma non è così.
Io ci ho provato. Ho cercato in tutti i modi di allontanare il Dolore.
Ma con il tempo ho scoperto un segreto. Il dolore non può essere un nemico perché è parte di te, e non lo puoi né sfuggire né combattere, sarebbe negare o lottare te stesso. Va guardato, conosciuto e vissuto fino in fondo. Occorre accettarlo allo stesso modo di un naso grosso o di un paio di gambe storte.
Non è facile, specie in alcune mattine, ma so che se non lo rifiuto si allontana.
Da questi momenti sono nate delle strategie, piccoli trucchi, in apparenza senza senso, che mi riportano la pace dentro.
Come la torta al cioccolato. Prepararla è come un rito e mi vede concentrata sin dal momento in cui inizio a reperire gli ingredienti. Lentamente mescolo lo zucchero al cacao e aggiungo piano gli altri elementi. E mentre il lavoro procede, sento crescere la soddisfazione di creare, con le mie mani, una piccola delizia.
Ieri ho portato la mia torta allo studio.
La settimana scorsa, mentre ero in attesa di una persona, ho sentito una ragazza piangere in giardino. Terminata la terapia, doveva andar via. La conoscevo di vista. Sapevo solo che aveva trent’anni, ma non avevo bisogno di chiedere per sapere il suo dolore. Appariva evidente.
D’istinto mi avvicino. Le dico qualche parola, lei mi manda a quel paese. Sorrido tra me. Al suo posto avrei fatto lo stesso. Mi era sfuggita una di quelle frasi usuali che appartengono al repertorio del “bravo psicologo”.
Mi guarda. Chissà che pensa. Cerco di vedermi con i suoi occhi. Le faccio rabbia, mi rendo conto.
Qualcuno accanto a lei, disorientato, cercava di consolarla dicendole di volerle bene. Era finto, perché il bene si costruisce e non nasce da una conoscenza occasionale o da un rigurgito di pietà di quelle persone che si definiscono “sensibili” nei confronti di chi soffre.
Non mi arrendo e mi seggo in silenzio lì accanto. Mi guarda confusa. L’avevo spesso sorpresa a fissarmi nei rari momenti d’incontro, seduta in sala attesa, nel veloce aprirsi di una porta tra una terapia e l’altra. Non avevo mai lavorato con lei, ma non era difficile comprendere i suoi problemi. In quegli sguardi fugaci c’era tutto il suo mondo.
Dopo qualche minuto di silenzio non so come inizio a parlarle della mia torta. E così inizia una strana conversazione a tre. Mentre cerco di svelarle un mio piccolo segreto per sedare la bestia che alle volte mi si sveglia dentro, la ragazza mi guarda con occhi sorpresi e sospettosi. Come può mai essere che anche io, ai suoi occhi alta, bella e sana, e in più, dato il lavoro, facente parte di quella categoria di persone che, si ritiene, vivano in una sorta di benessere assoluto, in un nirvana, possa avere un momento buio! Quasi non crede a quello che sente. Ma il mio racconto è teso essenzialmente alla descrizione degli ingredienti, alla lentezza che occorre nella procedura e, condizione indispensabile, alla necessaria concentrazione. L’altra, colei che per l’occasione aveva assunto il ruolo del “consolatore sensibile”, con voce allegra, e chissà perché, un’ottava più alta del solito, intona il coro alle proprietà della mia torta, come se la conversazione avesse di colpo assunto un carattere frivolo.
Ad un tratto la ragazza mi guarda diffidente:
“Perché non la fai tu e me la porti?” mi dice, e nel suo tono sento la sfida.
“Perché no!” le rispondo senza esitare “anche se il segreto è più nel prepararla che nell’assaggiarla.” aggiungo.
“No. Fammela tu!” insiste come una bambina.
“Va bene.” le rispondo “dimmi quando vieni.”
“Lo faresti? Per me? Non ci credo!” ribatte con la sfiducia di chi ha preso troppi calci nella vita.
“Te lo giuro! ”
Ieri ho portato la mia torta allo studio. E’ stata una bella festa per tutti quelli che sono venuti. Qualcuno chiedeva di chi fosse il compleanno. La ragazza, contenta, ma quasi incredula, ne ha mangiato una porzione e il resto, l’ha avvolto ben bene, e lo ha messo da parte.
L’ho vista dalla finestra mentre andava via. In poltrona vi era già una persona impaziente di iniziare.
Piccola, claudicante, reggeva con le due manine la teglia della torta più grande di lei mentre, sulle sue corte gambette, trotterellava alla fermata dell’autobus. Era stata una buona giornata per lei. Qualcuno le aveva prestato attenzione. Una piccola goccia di balsamo in un mare di sofferenza.
“Dovrai imparare a fare da sola la tua torta” penso.
Chiudo le tende e riprendo il mio lavoro.
Tina Paliotti (1992)
di Tina Paliotti
Non ci vuole molto, sono i soliti ingredienti: farina, zucchero, uova, latte, lievito, e quei cinquanta grammi di cacao che rendono magica la mia ricetta. Sì, è una ricetta speciale e vale molto più di un comune antidepressivo, o di un’ora di rilassamento. Ma non tutti lo capiscono.
Già il suo profumo è una magia che diffonde nell’aria una sensazione di cose buone di casa, e accoglie come un benvenuto l’ospite occasionale che, al piacere di gustarla, spesso associa il bonario rimprovero per la mia dichiarata passione per il cioccolato. E’ un gioco che mi diverte. Recitare questa parte un po’ da bambina che trascorre i pomeriggi ansimando a far torte.
Ma non è così.
Io ci ho provato. Ho cercato in tutti i modi di allontanare il Dolore.
Ma con il tempo ho scoperto un segreto. Il dolore non può essere un nemico perché è parte di te, e non lo puoi né sfuggire né combattere, sarebbe negare o lottare te stesso. Va guardato, conosciuto e vissuto fino in fondo. Occorre accettarlo allo stesso modo di un naso grosso o di un paio di gambe storte.
Non è facile, specie in alcune mattine, ma so che se non lo rifiuto si allontana.
Da questi momenti sono nate delle strategie, piccoli trucchi, in apparenza senza senso, che mi riportano la pace dentro.
Come la torta al cioccolato. Prepararla è come un rito e mi vede concentrata sin dal momento in cui inizio a reperire gli ingredienti. Lentamente mescolo lo zucchero al cacao e aggiungo piano gli altri elementi. E mentre il lavoro procede, sento crescere la soddisfazione di creare, con le mie mani, una piccola delizia.
Ieri ho portato la mia torta allo studio.
La settimana scorsa, mentre ero in attesa di una persona, ho sentito una ragazza piangere in giardino. Terminata la terapia, doveva andar via. La conoscevo di vista. Sapevo solo che aveva trent’anni, ma non avevo bisogno di chiedere per sapere il suo dolore. Appariva evidente.
D’istinto mi avvicino. Le dico qualche parola, lei mi manda a quel paese. Sorrido tra me. Al suo posto avrei fatto lo stesso. Mi era sfuggita una di quelle frasi usuali che appartengono al repertorio del “bravo psicologo”.
Mi guarda. Chissà che pensa. Cerco di vedermi con i suoi occhi. Le faccio rabbia, mi rendo conto.
Qualcuno accanto a lei, disorientato, cercava di consolarla dicendole di volerle bene. Era finto, perché il bene si costruisce e non nasce da una conoscenza occasionale o da un rigurgito di pietà di quelle persone che si definiscono “sensibili” nei confronti di chi soffre.
Non mi arrendo e mi seggo in silenzio lì accanto. Mi guarda confusa. L’avevo spesso sorpresa a fissarmi nei rari momenti d’incontro, seduta in sala attesa, nel veloce aprirsi di una porta tra una terapia e l’altra. Non avevo mai lavorato con lei, ma non era difficile comprendere i suoi problemi. In quegli sguardi fugaci c’era tutto il suo mondo.
Dopo qualche minuto di silenzio non so come inizio a parlarle della mia torta. E così inizia una strana conversazione a tre. Mentre cerco di svelarle un mio piccolo segreto per sedare la bestia che alle volte mi si sveglia dentro, la ragazza mi guarda con occhi sorpresi e sospettosi. Come può mai essere che anche io, ai suoi occhi alta, bella e sana, e in più, dato il lavoro, facente parte di quella categoria di persone che, si ritiene, vivano in una sorta di benessere assoluto, in un nirvana, possa avere un momento buio! Quasi non crede a quello che sente. Ma il mio racconto è teso essenzialmente alla descrizione degli ingredienti, alla lentezza che occorre nella procedura e, condizione indispensabile, alla necessaria concentrazione. L’altra, colei che per l’occasione aveva assunto il ruolo del “consolatore sensibile”, con voce allegra, e chissà perché, un’ottava più alta del solito, intona il coro alle proprietà della mia torta, come se la conversazione avesse di colpo assunto un carattere frivolo.
Ad un tratto la ragazza mi guarda diffidente:
“Perché non la fai tu e me la porti?” mi dice, e nel suo tono sento la sfida.
“Perché no!” le rispondo senza esitare “anche se il segreto è più nel prepararla che nell’assaggiarla.” aggiungo.
“No. Fammela tu!” insiste come una bambina.
“Va bene.” le rispondo “dimmi quando vieni.”
“Lo faresti? Per me? Non ci credo!” ribatte con la sfiducia di chi ha preso troppi calci nella vita.
“Te lo giuro! ”
Ieri ho portato la mia torta allo studio. E’ stata una bella festa per tutti quelli che sono venuti. Qualcuno chiedeva di chi fosse il compleanno. La ragazza, contenta, ma quasi incredula, ne ha mangiato una porzione e il resto, l’ha avvolto ben bene, e lo ha messo da parte.
L’ho vista dalla finestra mentre andava via. In poltrona vi era già una persona impaziente di iniziare.
Piccola, claudicante, reggeva con le due manine la teglia della torta più grande di lei mentre, sulle sue corte gambette, trotterellava alla fermata dell’autobus. Era stata una buona giornata per lei. Qualcuno le aveva prestato attenzione. Una piccola goccia di balsamo in un mare di sofferenza.
“Dovrai imparare a fare da sola la tua torta” penso.
Chiudo le tende e riprendo il mio lavoro.
Tina Paliotti (1992)
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