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Il giusto senso di una donazione e di un trapianto d'organo
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Il giusto senso di una donazione e di un trapianto d'organo
Ciao a tutti
ho visto La vita Attesa il cortometraggio inserito nella campagna per la donazione d'organo.
E' efficace, certo, specie nel finale, ma - chiedo scusa se esprimo un piccolo dissenso - questo cortometraggio non rende a pieno l'idea.
Sì, certo, può anche accadere che per un tatuaggio ci si possa ammalare di epatite fulminante, ma nella maggior parte dei casi non è così.
Per lo più le persone in attesa di trapianto sono persone debilitate da anni di malattia cronica che progressivamente, ma inesorabilmente, con la degradazione della funzionalità dell'organo malato, subiscono una costante debilitazione psicofisica con un degrado progressivo della qualità della loro vita e di coloro che sono loro intorno.
Non pensiate che sia facile.
Spesso mi è capitato di ascoltare persone, anche addetti ai lavori, parlare in termini di barricate, nel senso che si valuta la difficoltà della decisione di donare gli organi di un congiunto in un momento di estrema sofferenza, mentre si reputa, erroneamente, che chi invece è in attesa di trapianto non gli interessa nulla al di fuori di sé – si sa, l'egoismo del malato! - e sta lì, come una specie di avvoltoio in attesa che qualcuno muoia.
Ed invece non è vero affatto.
Quando si comprende che non esistono terapie, e che l'unica soluzione alla morte è il trapianto... ecco... solo allora, e nemmeno sempre, si accetta.
E l'attesa, è una attesa dura, ché nel momento che decidi e fai le pratiche, non sai nemmeno tu cosa aspettarti, ché ti accorgi che non puoi sperare che al più presto ti chiamino, anche se vedi la qualità della tua esistenza decadere e la morte avvicinarsi, no, devi mettere tutto nelle mani del cielo, del caso, o di quello in cui credi, e continuare la vita senza pensare.
Perché è l'unico modo per uscirne indenni. Senza sentimenti di colpa che a lungo andare distruggono in ogni caso la tua esistenza.
Perché un trapianto si può accettare solo come un dono dal cielo, tenendo ben presente che questo dono ha in sé un costo altissimo.
E sono attimi difficili, di gioia e di dolore. Una rinascita che contiene in sé il senso di un lutto. Una gioia offuscata dalla consapevolezza che da qualche parte del mondo ci sono lacrime.
E sono certa che nessun trapiantato lo dimentica, anche se non si dice, non se ne parla. Perché di cose così intime non si parla.
E allora ecco come lo farei un cortometraggio per la campagna della donazione d'organo.
Riprenderei i passaggi della vita di un malato cronico, della sofferenza di non poter adempiere alle cose più banali, della “mancanza” della persona in seno alla famiglia, che diviene a lungo andare un fantasma, senza forza e né potere.
E poi mostrerei la rinascita, che non è andare a giocare a pallone, (vorrei vedere quanti, poi, giocano al pallone!) ma è un riprendere graduale della vita ordinaria, quella delle piccole cose, di uscire a fare una passeggiata senza affannare, di decidere di poter bere un bicchiere d'acqua quando si vuole, di poter riprendere il lavoro, la vita normale con i problemi ordinari, quelli di tutti, compresi da tutti, non quelli che ti senti un extra terrestre quando li racconti, che poi va a finire che non racconti più niente a nessuno.
La ripresa quindi come il miracolo di vivere con cautela una vita normale.
Ma ripresa è anche interrogarsi sul vero senso della vita, di cercare di comprendere il significato di una rinascita e scoprire ogni giorno il senso, di modo che il grande dono ricevuto possa essere onorato e in mille modi ricambiato.
Ecco, in questo modo racconterei... il giusto senso da attribuire a una donazione, a un trapianto.
ho visto La vita Attesa il cortometraggio inserito nella campagna per la donazione d'organo.
E' efficace, certo, specie nel finale, ma - chiedo scusa se esprimo un piccolo dissenso - questo cortometraggio non rende a pieno l'idea.
Sì, certo, può anche accadere che per un tatuaggio ci si possa ammalare di epatite fulminante, ma nella maggior parte dei casi non è così.
Per lo più le persone in attesa di trapianto sono persone debilitate da anni di malattia cronica che progressivamente, ma inesorabilmente, con la degradazione della funzionalità dell'organo malato, subiscono una costante debilitazione psicofisica con un degrado progressivo della qualità della loro vita e di coloro che sono loro intorno.
Non pensiate che sia facile.
Spesso mi è capitato di ascoltare persone, anche addetti ai lavori, parlare in termini di barricate, nel senso che si valuta la difficoltà della decisione di donare gli organi di un congiunto in un momento di estrema sofferenza, mentre si reputa, erroneamente, che chi invece è in attesa di trapianto non gli interessa nulla al di fuori di sé – si sa, l'egoismo del malato! - e sta lì, come una specie di avvoltoio in attesa che qualcuno muoia.
Ed invece non è vero affatto.
Quando si comprende che non esistono terapie, e che l'unica soluzione alla morte è il trapianto... ecco... solo allora, e nemmeno sempre, si accetta.
E l'attesa, è una attesa dura, ché nel momento che decidi e fai le pratiche, non sai nemmeno tu cosa aspettarti, ché ti accorgi che non puoi sperare che al più presto ti chiamino, anche se vedi la qualità della tua esistenza decadere e la morte avvicinarsi, no, devi mettere tutto nelle mani del cielo, del caso, o di quello in cui credi, e continuare la vita senza pensare.
Perché è l'unico modo per uscirne indenni. Senza sentimenti di colpa che a lungo andare distruggono in ogni caso la tua esistenza.
Perché un trapianto si può accettare solo come un dono dal cielo, tenendo ben presente che questo dono ha in sé un costo altissimo.
E sono attimi difficili, di gioia e di dolore. Una rinascita che contiene in sé il senso di un lutto. Una gioia offuscata dalla consapevolezza che da qualche parte del mondo ci sono lacrime.
E sono certa che nessun trapiantato lo dimentica, anche se non si dice, non se ne parla. Perché di cose così intime non si parla.
E allora ecco come lo farei un cortometraggio per la campagna della donazione d'organo.
Riprenderei i passaggi della vita di un malato cronico, della sofferenza di non poter adempiere alle cose più banali, della “mancanza” della persona in seno alla famiglia, che diviene a lungo andare un fantasma, senza forza e né potere.
E poi mostrerei la rinascita, che non è andare a giocare a pallone, (vorrei vedere quanti, poi, giocano al pallone!) ma è un riprendere graduale della vita ordinaria, quella delle piccole cose, di uscire a fare una passeggiata senza affannare, di decidere di poter bere un bicchiere d'acqua quando si vuole, di poter riprendere il lavoro, la vita normale con i problemi ordinari, quelli di tutti, compresi da tutti, non quelli che ti senti un extra terrestre quando li racconti, che poi va a finire che non racconti più niente a nessuno.
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Ecco, in questo modo racconterei... il giusto senso da attribuire a una donazione, a un trapianto.
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