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Cosa intendo per non-violenza (Gandhi)

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Cosa intendo per non-violenza (Gandhi) Empty Cosa intendo per non-violenza (Gandhi)

Messaggio Da Admin Gio 04 Feb 2010, 20:57


Ecco di seguito parte di uno scritto dove Gandhi espone il suo concetto di non-violenza e di resistenza passiva.
Uno scritto più che mai attuale e che genera riflessioni sulle modalità di reagire a certe penose condizioni personali, familiari, sociali e politiche.
Combattere la violenza con altrettanta violenza, e il sorpruso con la furbizia e l'inganno non faranno altro che generare ulteriori malesseri.
Riflettiamo...



Non-violenza e codardia si accompagnano male.

Posso immaginare un uomo armato fino ai denti che sia, in cuor suo, un codardo. Il possesso di armi implica un elemento di paura, se non di vigliaccheria.
La vera non-violenza è invece impossibile ove non si possegga un indomito
coraggio.
La non-violenza non deve mai essere usata a mo' di scudo per la codardia. Essa è un'arma per il valoroso. Non scorgo né eroismo né sacrificio nel distruggere vite o proprietà, per offesa o per difesa.

La prova del nove della non-violenza è che, in un conflitto non-violento, non vi sono strascichi di rancore e, alla fine, i nemici si tramutano in amici. Di ciò ho fatto esperienza in Sudafrica con il generale Smuts. Questi fu, dapprima, il mio più accanito avversario. Oggi è il mio amico più affettuoso.

Questo è, in sostanza, il principio della non-collaborazione non-violenta. Ne consegue che esso deve affondare le sue radici nell'amore.
Il suo scopo non dev'essere quello di punire o di infliggere ferite all'avversario. Pur non collaborando con lui, dobbiamo fargli sentire che in noi egli ha un amico, e dobbiamo tentare di toccargli il cuore rendendogli servigi umanitari ogni volta che ci è possibile.

La verità (satya) implica amore, e la fermezza (agraha) genera - e
quindi ne è sinonimo - la forza. Perciò ho preso a chiamare satyagraha il movimento per l'indipendenza dell'India. Vale a dire:
una forza che nasce dalla verità, dall'amore, dalla non-violenza.

Ahimsa è attributo dell'anima e, quindi, deve esser praticato da
chiunque, in ogni faccenda della vita. Se non vien messo in pratica in
ogni settore, non ha alcun valore pratico.

L'ahimsa non è quella cosa rozza che si è voluto far apparire. Non
nuocere ad alcun essere vivente fa, senza dubbio, parte dell'ahimsa.
Però ne è solo un'espressione secondaria. Al principio dell'ahimsa nuoce qualsiasi pensiero malvagio, nuoce l'indebita fretta, nuocciono le menzogne, l'odio, il malaugurio, l'invidia. Questo principio viene altresì violato quando si tiene per sé ciò di cui il mondo ha bisogno.


In un'epoca come questa, in cui la forza bruta detta legge, è quasi impossibile, per chiunque, credere che qualcuno possa rifiutare la legge della supremazia della forza bruta. Perciò ricevo lettere anonime in cui mi si consiglia di non interferire nella campagna della non-collaborazione, anche qualora da essa nascessero atti di violenza.
Altri vengono da me e, presumendo che io, segretamente, stia tramando
violenza, mi chiedono quando verrà il felice momento in cui le ostilità violente saranno apertamente dichiarate. Gli inglesi - mi assicurano costoro - non cederanno mai se non alla violenza, aperta o clandestina. Altri ancora - mi si informa - credono ch'io sia il più gran mascalzone vivente in India, poiché non rivelo mai le mie vere intenzioni, mentre essi non hanno alcun dubbio ch'io, dentro di me, creda nella violenza al pari di quasi tutti gli altri.

Siccome la dottrina della spada è così radicata nella maggior parte degli uomini, siccome il successo della non-collaborazione dipende soprattutto dalla rinuncia a ogni violenza dal principio alla fine, e siccome le mie tesi al riguardo determinano la condotta di un gran numero di persone, desidero precisare questi concetti nel modo più chiaro possibile.

Credo fermamente che, laddove non ci sia da scegliere che tra codardia
e violenza, si debba consigliare la violenza. Perciò, quando il mio figlio maggiore mi chiese come si sarebbe dovuto comportare qualora fosse stato presente allorché io, nel 1908, venni aggredito e ridotto quasi in fin di vita (scappar via e lasciare che mi ammazzassero, oppure seguire il suo istinto e usar la propria forza fisica per difendermi), io gli risposi che sarebbe stato suo dovere difendermi, anche a costo di usare violenza.

Però credo fermamente che la non-violenza sia mille volte superiore
alla violenza, che il perdono sia più virile del castigo.

"Il perdono nobilita il soldato". Ma l'astensione dal castigo equivale al perdono
soltanto allorché si ha il potere di punire; non ha senso, invece, quando proviene da una creatura impotente. Un topo non perdona il gatto nel momento in cui non può far altro che lasciarsi sbranare. Io, perciò, apprezzo il sentimento di quanti reclamano l'esemplare punizione del generale Dyer e dei suoi pari. Lo farebbero a pezzi, se potessero. Ma non credo che l'India sia impotente. Non considero me stesso una creatura impotente. Solo, intendo usare la mia forza e la forza dell'India per uno scopo migliore.

Non mi si fraintenda. La forza non deriva dalla capacità fisica.
Proviene da un'indomita volontà.
Uno zulu medio è in grado di sopraffare, in qualsiasi momento, un inglese medio, in un combattimento a corpo a corpo. Però fugge di fronte a un ragazzino inglese, poiché teme la sua rivoltella o quelli che l'userebbero per lui. Teme la morte e perde coraggio nonostante la prestanza fisica.

Noi in India potremmo anche renderci conto da un momento all'altro che
centomila inglesi non debbono spaventare trecento milioni di esseri umani. In questo caso, certo, il perdono significherà il sicuro riconoscimento della nostra forza. Assieme al perdono illuminato verrà senz'altro a noi, come un'onda, una gran forza, e allora non sarà più possibile a un generale Dyer o a un Frank Johnson recare affronto all'India remissiva. Importa poco che, per il momento, io non riesca a inculcare il mio principio. Ci sentiamo troppo umiliati, adesso, per non nutrire rabbia e desiderio di vendetta. Ma non posso astenermi dal dire che l'India ha tutto da guadagnare rinunciando al suo diritto di punire. Abbiamo un lavoro migliore da svolgere, una missione più alta da compiere per il mondo intero.

Non sono un visionario. Mi reputo un idealista pratico. La religione della non-violenza non è intesa soltanto per i rishi [saggi indù] e per i santi. È intesa anche per la gente comune.

La non-violenza è la legge della nostra specie, come la violenza è la legge dei bruti. Lo spirito giace in letargo, nel bruto, ed egli non conosce altra legge che quella della possanza fisica. La dignità umana richiede che si obbedisca a una legge più alta: alla forza dello spirito.

................................

Non-violenza, nella sua condizione dinamica, significa cosciente
sofferenza. Non significa mite sottomissione alla volontà dei malvagi, ma comporta l'impegno di tutta l'anima a opporsi alla volontà del tiranno.

Operando in nome di questa legge interiore, risulta impossibile per un singolo individuo sfidare tutto il potere di un ingiusto impero per salvare il proprio onore, la propria religione, la propria anima e adoperarsi per la caduta di quell'impero o per la sua rigenerazione.

Dunque, non chiedo all'India di praticare la non-violenza perché è debole. Voglio ch'essa la pratichi essendo ben conscia della sua propria forza, del suo proprio potere. Nessun addestramento alle armi è necessario per dispiegare questa forza. Si può credere di averne bisogno perché si pensa di essere soltanto un corpo inerte. Voglio che l'India si renda conto di avere un'anima che non può perire, ma che è capace di elevarsi trionfalmente al di sopra di ogni debolezza fisica e di sfidare il mondo intero.
.......
Però, essendo un uomo pratico, non aspetterò che l'India scopra da sé l'efficacia dell'arma spirituale nella lotta politica.

L'India si ritiene impotente e si paralizza di fronte alle mitragliatrici, ai carri armati e agli aeroplani degli inglesi. E fa derivare la non-collaborazione dalla sua debolezza. Tuttavia essa servirà allo stesso scopo, cioè a liberarla dall'oppressione inglese, dal peso di questa ingiustizia, se un numero sufficiente di persone la metteranno in pratica.

Io distinguo questo movimento di non-collaborazione dal movimento
indipendentista irlandese, il sinn Fein, poiché il nostro non è conciliabile in alcun modo con la violenza. Tuttavia invito anche gli adepti della scuola della violenza a provare invece con la pacifica non-collaborazione, o resistenza passiva.

Se fallisse, non sarebbe a causa della sua intrinseca debolezza.
Potrebbe fallire per una scarsità di adesioni. Allora il pericolo sarebbe davvero grave. Gli uomini d'animo nobile - che non posson tollerare più a lungo l'umiliazione della loro patria - vorranno dare sfogo alla rabbia. Si voteranno alla violenza. Per quel che ne so io, periranno però senza liberare se stessi e il Paese dall'oppressione.
Se l'India adottasse la dottrina della spada, potrebbe conseguire una vittoria momentanea. Allora, però, cesserebbe di essere l'orgoglio del mio cuore.

Io sono sposato all'India poiché a essa debbo tutto di me. Credo, assolutamente, che essa abbia una missione nel mondo. Non deve imitare
ciecamente l'Europa. Se l'India accettasse la dottrina della spada, io verrei messo allora a dura prova. Spero di non venir trovato in difetto. La mia fede in essa, questa fede vivente trascenderà il mio stesso amore per l'India. La mia vita è votata a servire l'India mediante la religione della non-violenza che, secondo me, sta alla radice dell'induismo.

Frattanto sollecito coloro che non si fidano di me a non disturbare il pacifico andamento della lotta appena cominciata, incitando alla violenza perché convinti che io desideri la violenza. Detesto i sotterfugi, l'insincerità. Si dia modo a questa gente di metter alla prova la noncollaborazione non-violenta, e ci si accorgerà che io non ho e non ho mai avuto riserve mentali di sorta.

La forza della non-violenza è di gran lunga più meravigliosa e arcana delle forze materiali della natura, come l'elettricità. La forza generata dalla non-violenza è infinitamente maggiore della forza di tutte le armi inventate dall'ingegno umano.

Sebbene la non-collaborazione sia una delle principali armi nell'arsenale del satyagraha, non va però dimenticato che non è, dopotutto, altro che un mezzo per assicurarsi la collaborazione dell'avversario, in armonia con la verità e la giustizia. Troncare ogni rapporto con le potenze avversarie non sarà mai, quindi, consono ai fini del satyagraha, il quale mira invece a trasformare o purificare quei rapporti.


La disobbedienza civile rientra fra i diritti di qualsiasi cittadino
.
Nessuno può rinunciarvi senza cessare di essere uomo. Alla
disobbedienza civile non tiene mai dietro l'anarchia. La disobbedienza
criminale può invece condurvi. Ogni Stato reprime con la forza la
violenza criminale. Perirebbe, se così non facesse. Ma reprimere la
disobbedienza civile equivale a cercar di incarcerare le coscienze.

Non credo nelle scorciatoie violente al successo. Per quanto io ammiri
i nobili motivi e simpatizzi con essi, sono incondizionatamente avverso ai metodi violenti, anche se al servizio della causa più giusta. L'esperienza mi ha convinto che un bene permanente non potrà mai esser frutto di non-verità e di violenza.

La non-violenza implica la volontaria sottomissione alle pene previste
per la non-collaborazione con il male.

............

La non-violenza è la più grande forza a disposizione del genere umano.
È più potente della più micidiale arma che l'ingegno umano possa
inventare
. Dobbiamo fare della verità e della non-violenza non materia
di pratica individuale bensì di gruppi, di comunità, di Nazioni.
Questo è comunque il mio sogno. Vivrò e morirò per tentare di
realizzarlo. La fede mi aiuta a scoprire ogni giorno nuove verità.


(Tratto dalla lista Sadhana di Guido da Todi)



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Cosa intendo per non-violenza (Gandhi) Empty Un mondo violento da cui difendersi con la non-violenza

Messaggio Da Admin Gio 04 Feb 2010, 21:30



Ma violenza non è solo quando ti sparano addosso, o ti insultano e ti minacciano.
La violenza può assumere le forme più subdole e, trasmessa come sistema di valori, condiziona e trascina le persone a comportarsi nella identica maniera.

Nel nostro paese non vi sono dominatori stranieri che s'impongono con le armi, ma esiste comunque una violenza radicata nella nostra società che genera malesseri e idee di ribellione.

" O ti fai pecora o diventi peggio di loro..." mi diceva oggi una persona costretta ad andare via da una città che ama, ma stanco del sorpruso quotidiano che è costretto a vivere al lavoro, dove lo hanno sbattuto dopo venti anni in cassa integrazione, e nel quotidiano fatto di un tessuto sociale che diviene sempre più difficile.

Ma la soluzione non è né nel farsi pecora né tanto meno diventare come loro, la soluzione sta nell'aprire gli occhi, unirsi e nel lottare con fermezza e decisione per i propri diritti.

Viviamo in un contesto dove chi ha potere lo esercita pensando a salvaguardare unicamente i propri interessi, mentre chi potrebbe fare qualcosa per opporsi, invece che proporre modelli validi, alternative che consentano un vivere migliore per tutti, non fa altro che enumerare i difetti di chi governa.
Una lamentela sterile, infruttuosa, che non fa altro che alimentare altri malesseri e stati di ribellione.

Ma la violenza è anche altro. Violenza è anche sbattere in televisione, in prima serata, il dramma di un disabile, cogliendolo nella propria indifesa intimità e sperando di coglierne il desiderio di morire.
Per liberarlo da una vita senza speranza, o per liberare i familiari da un accudimento difficile? Perché nessuno si è chiesto: ma dove sono le strutture idonee ad ospitare una persona che vive in grave difficoltà?

Violenza è anche pretendere di sapere che la vita di una persona disabile non ha lo stesso valore e significato della vita degli altri...

Ma la violenza viene soprattutto insegnata ai nostri figli, che sin da piccoli vengono istruiti ala lotta attraverso i film, i giochi e i videogiochi, dove alla fine tutti applaudono il buono che uccide il cattivo.

E quindi si trasmette di continuo il messaggio implicito che uccidere è lecito quando si persegue il bene e si lotta il male.
E invece no! Uccidere e, alla stessa stregua, difendersi, nelle stesse identiche modalità attuate da chi offende, vuol dire continuare a perpetuare comportamenti anomali che creano malesseri.

Allo stesso modo di come diviene criminale chi getta le bombe, a scopo di difesa, su un paese da cui si temono minacce....
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